14 ottobre 2011

Sauri delle Dolomiti

Per più di 200 anni di esplorazione geologica la penisola italiana rappresentava un'eccezione tra i paesi dell´Europa meridionale - non restituendo alcuna evidenza della presenza di dinosauri sul territorio.

Ma nel 1941 il paleontologo tedesco Friedrich von Huene descrisse una piccola impronta tridattila (lunga 6-7cm) ritrovata in sedimenti di delta fluviale sui Monti Pisani presso Agnano (Toscana), datata a 230 milioni di anni. Huene chiamo l´icnospecie appropriatamente Coelurosaurichnus toscanus e la attribuì a un ceratosauride di piccole dimensioni. L´icnofossile fu esposto nel Museo di Geologia e Paleontologia di Firenze e si dovette aspettare fino al 1985 per ampliare questa prima collezione di dinosauri italiani.

Fino a trenta anni fa, nessun paleontologo avrebbe mai pensato di trovare tracce di dinosauri nell'area dolomitica. L´apparente mancanza di dinosauri sul territorio fu spiegata con la ricostruzione paleoambientale che collocava l´area dell'odierna Italia in un vasto mare (la Tetide), in parte profondo, in cui crescevano barriere coralline e si depositarono marne e limi - però nessuna estesa terraferma che poteva ospitare dinosauri.

Fig.1. La mostra temporanea "Sauri delle Dolomiti" organizzata dal Museo Scienze Naturali Alto Adige (BZ) dedicata ai vertebrati fossili delle Dolomiti e il loro antico ambiente.

Ma negli ultimi decenni le rocce delle Dolomiti hanno restituito una incredibile varietà di  resti di vertebrati - infatti sono state scoperte le più antiche orme di anfibi delle Alpi, le più lunghe camminate di dinosauri di tutta Europa ed i più antichi rettili volanti del mondo.

Fig.2. Le piú importanti località con impronte di sauri menzionate nel seguente post.
Nel 1985 il naturalista amatoriale Vittorino Cazzetta scopre su un masso di frana ai piedi del Monte Pelmetto - nelle Dolomiti orientali (Belluno)  - 100 orme  che formano 5 diverse piste di dinosauri. Tre piste presentano orme lunghe 6-7 centimetri attribuite a dei piccoli teropodi, una quarta pista di orme lunghe da 10-12 centimetri è stata attribuita a un ornitischio bipede e l´ultima pista, con le maggiori dimensioni fino a 15 centimetri, potrebbe essere stata lasciata da un pro sauropode di piccole dimensioni. Una ricerca condotta nel detrito di frana e ghiaione del Monte Pelmetto ha  restituito altri blocchi con delle impronte di dinosauri e tecodonti.
Anche uno dei siti di maggiori dimensioni nelle Dolomiti fu scoperto per caso in un pomeriggio di primavera del 1988 in un´area di frana caduta nel medioevo - paesaggio cosi impervio è strano che è citato perfino da Dante Alighieri nella sua Divina Commedia. Oggi i Lavini di Marco nei pressi di Rovereto comprendono diverse centinaia di orme visibile su un strato scoperto dalla frana, le più belle impronte possono essere trovate nel "Colatoio Chemini", dedicato al scopritore del sito Luciano Chemini.
Nel 1992 in un altro singolo blocco di frana ai piedi delle Tre Cime di Lavaredo furono scoperte due grandi orme tridattile lunghe 30 centimetri e nel 1994 l´icnologo Giuseppe Leonardi segnala la presenza di orme tridattile presso Cima Puez (Bolzano). Tra il 1994 e il 2000 altri naturalisti amatoriali continuano a scoprire impronte nei limiti del "Parco delle Dolomiti Friuliane", situato tra i paesi di Andreis, Claut e Cimolais (Pordenone).
Questi icnofossili comprendono tracce di teropodi, anche di dimensioni molto grandi, inoltre prosauropodi e tecodonti.
Ricerce piú o meno sistematico hanno rilevato siti negli Alti Lessini veronesi (Valle di Revolto), sul Monte Pasubio, Lessini settentrionali, Beco di Filadonna e Valle del Sarca.
Quasi tutte le piste e impronte di dinosauri conosciuti nelle Dolomiti sono state rinvenute nella formazione della Dolomia Principale (Triassico superiore) o nella formazione dei Calcari Grigi (Giurassico inferiore). Entrambe le formazioni sono rocce carbonati massicce di colorazione grigia che si sono depositate in una vasta zona intra- e supratidale. 

Fig.3. Contatto tra Dolomia principale e calcari Grigi (ben stratificati sulla parte superiore della parete) nelle Dolomiti.

Una eccezione particolare è una grande impronta tridattile (lunga 35 centimetri) notata per caso nel 1994 da un geologo su un grande blocco usato nella costruzione dei moli di Ravenna. Ricerche successive sono riuscita a determinar la provenienza del blocco a una cava situata ai piedi dell´Altopiano del Cansiglio (Pordenone), dove vengono estratte rocce carbonatiche del Cretacico.

Le moderne ricostruzioni dell´antica regione delle Dolomiti (e l´Italia) basate sulle impronte di animali vedono un ampio arcipelago d'isole anche di grandi dimensioni, con sufficiente biomassa per garantire la sopravivenza di popolazioni di dinosauri erbivori con tanto di predatori, collegati tra di loro da vaste zone tidali, che rendevano possibile una migrazione dei dinosauri tra le terre emerse e la conservazione delle loro piste nei fanghi e limi carbonatici depositati.

Bibliografia:

BELVEDERE, M.; AVANZINI, M.; MIETTO, P. & RIGO, M. (2008): Norian dinosaur footprints from the "Strada delle Gallerie" (Monte Pasubio, NE Italy). Studi Trent. Sci. Nat., Acta Geol.(83): 267-275
DAL SASSO, C. & BRILLANTE, G. (2001): Dinosauri italiani. Marsilio Editore, Venezia: 256

13 ottobre 2011

Frana nel Latemar

È riportata la notizia sul "Corriere della sera" di un crollo e caduta massi nel massiccio del Latemar (Trentino-Alto Adige) il 2. ottobre - evento in una zona turistica per fortuna senza conseguenze gravi . Tra le varie cause del crollo viene anche citato il degrado del permafrost, cioè materiale congelato con temperature perenni sotto gli 0°C. È vero che negli ultimi anni sono state osservate varie frane nell´ambiente alpino e sopra un'elevazione di 2.500 metri (limite inferiore generalizzato del permafrost nelle Alpi) e che il Latemar raggiunge i 2.800 metri, comunque in questo caso non è l´unica è la più plausibile spiegazione.

Fig.1. Il Gruppo del Latemar è un'antica piattaforma carbonatica del Triassico medio. Questa foto, presa da un panello didattico del sentiero geologico sopra la Val di Fiemme, evidenzia le diverse aree di accrescimento dell´antica piattaforma, nella parte centrale sono chiaramente distinguibili gli strati orizzontali (Calcare del Latemar) dell´antica laguna centrale.
Il gruppo del Latemar è un'antica piattaforma carbonatica del Triassico medio e le rocce carbonatiche sono generalmente già molto fratturate per via dell´innalzamento tettonico delle Dolomiti dal Cretaceo in poi. Inoltre questo tipo di roccia è molto vulnerabile all´erosione meccanica, i forti sbalzi di temperatura in quest' altitudine e soprattutto  il congelamento dell´acqua piovana nelle fessure delle pareti provoca grandi forze che fratturano incessantemente le pareti e  spuntoni di queste montagne.
Non sembra causale che la frana è avvenuta agli inizi di ottobre, quando le temperature durante il giorno sono ancora elevate, ma le notti già fredde. Anche la frana nella Val Fiscalina 4 anni fa è avvenuta a meta ottobre.


In ogni caso questo evento è il normale processo di erosione in un ambiente di montagna come sono le Dolomiti.

Risorse online:

NERI, C.; GIANOLLA, P.; FURLANIS, S.; CAPUTO, R. & BOSELLINI, A. (): Note illustrative della Carta Geologica d´Italia alla scala 1:50.000 foglio 029 Cortina d´Ampezzo. APAT - Servizio Geologico d´Italia. 

12 ottobre 2011

Botanica per il geologo: Ghiacciai di pietre come nicchie estreme

"Chi dice in fuoco il mondo finirà
chi dice in ghiaccio
per ciò che di disìo ebb'in assaggio
sto con color che al fuoco dan vantaggio
ma se
dovessi sceglier di perir doppiamente
penso d'odio conoscer´ abbastanza
a dir che a fin di distruzione
il ghiaccio pure è grande
e sufficiente.
"
"Fire and Ice" di Robert Frost (1874-1963)


Questo post partecipa alla V edizione del "Carnevale della Biodiversità", gestita da Andrea Cau sul suo blog "Theropoda", dove si potrà trovare molti altri esempi di nicchie estreme presenti sulla terra (e non solo).

Fig.1. Una tavola mostra le diverse fasce di vegetazioni sulle Alpi, raffigurazione preso dal "Berghaus-Atlas", un supplemento per l'enciclopedia mondiale "Kosmos" di Alexander von Humboldt, pubblicata tra il 1845 al 1862.

Il naturalista tedesco Alexander von Humboldt (1769-1859) fu il primo a pubblicare l´osservazione che le fasce di vegetazione di una montagna ricapitolano in un profilo verticale le diverse zone climatiche del globo terrestre. La fascia alpina equivale in questo caso a un deserto polare - caratterizzato da lunghi mesi con copertura nevosa, una breve estate con forti sbalzi termici tra giorno e notte, improvvise ondate di maltempo e un'intensa esposizione ai raggi ultravioletti.
Come se non bastasse quest'ambiente desolato, il clima freddo genera processi geomorfologici che rendono ulteriormente difficile la sopravivenza agli organismi.

I "ghiacciai di pietre" (rock glaciers) sono amassi di blocchi e detrito di falda con una certa percentuale di ghiaccio interstiziale. Il ghiaccio si deforme sotto il peso del detrito e l´intero deposito lentamente ma inesorabilmente si muove verso valle con una velocità di pochi metri per anno, formando una tipica morfologia lobata che termina con una fronte ripida.

Fig.2. Un "ghiacciaio di pietre" in movimento attivo.











Rock glaciers sono forme comuni del permafrost, esclusive dell´area periglaciale che nelle Alpi incomincia da un´altitudine media di 2.500m in poi e copre dal 2 al 5% dell´area complessiva di questa catena montuosa - sembra poco, ma è almeno quattro volte tanto l´area coperto dai ghiacciai normali.

Organismi, ma sopratutto piante che colonizzano un rock glacier attivo devono sopraffare vari fattori avversi:

  • Caduta di massi che provvedono un continuo flusso di detrito
  • Il movimento inesorabile, che destabilizza la superficie del ghiacciaio di pietra
  • L´instabilità della superficie rende impossibile l´accumulo di terriccio o humus. Il materiale a grana fine si deposita in profondità. Le cavità superficiali tra i blocchi e sassi non ritengono l´acqua piovana - il risultato è una superficie spoglia e arida
  • La presenza di ghiaccio nel sottosuolo modifica il flusso di energia degli strati superficiali e del terreno. Durante l´inverno le temperature possono scendono fino a -10°C per alcuni mesi, in area senza ghiaccio sotterraneo le temperature non scendono sotto una media annua (che nelle Alpi si aggira sui -5°C) per un periodo più corto
  • La superficie di un ghiacciaio di pietra resta pertanto congelata più a lungo, anche la coltra nevosa si può mantenere più facilmente, spesso anche per tutto l´estate
  • La superficie è prevalentemente detrito asciutto, solo se il ghiaccio è vicino alla superficie, la sua fusione genera ruscelli, laghetti o acqua stagnante e fredda

La mappatura della vegetazione di ghiacciai di pietre nelle Alpi ha mostrato che in principio le specie di piante rintracciabili su di essi non differiscono da quelle piante che colonizzano ghiaioni e coni detritici - le cosiddette Glareofite. I problemi sono gli stessi: una superficie molto variabile sia nello spazio (disposizione caotica di massi) che nel tempo (attività di caduta massi e movimento del terreno).

Fig.3. Suddivisione morfologica delle Glareofite che vivono nei detriti in base alle forme di crescita. Esistono diverse strategie per sopravvivere al movimento del detrito e del terreno: radici resistenti o elastiche, stoloni superficiali per aggirare il problema e cuscinetti per accumulare una fascia di detrito che funga da frangiflutti contro la marea di rocce (da COSENTINO et al. 2006).

Quello che differisce è la distribuzione delle diverse specie di piante. Su un rock glacier composta di detrito di rocce metamorfiche (scisti e gneiss) delle Alpi centrali sono state riscontrate seguenti fasce di vegetazione:

  • La fronte ripida del ghiacciaio di pietre, zona in cui il materiale di grana fine è esposto per via del movimento, è colonizzato da specie di Cerastio (Cerastium), Sassifraga (Saxifraga) e Oxyria, tipici glareofite di terreni silicatici e umidi.
  • L´area anteriore della lingua del ghiacciaio, con movimenti meno pronunciati, è colonizzata da glareofite striscianti come Ambretta strisciante (Geum reptans) e Senecio (Senecio doronicum). Piante che dimostrano una stabilità superficiale sono arbusti come Rhododendro (Rhododendron) e Salice (Salix), inoltre ciuffi di erba Lucciola (Luzula).
  • L´area posteriore o base della lingua del ghiacciaio è una zona sottoposta a intensi movimenti e caduta di massi. Quest'ambiente instabile è quasi spoglio, solo licheni come Rhizocarpon, Brodoa e Umbilicaria colonizzano grandi blocchi, che tendono a muoversi e rotolare di meno.
Fig.4. Specie di piante e organismi ritrovati su un rock glacier attivo composta da detrito di schisto/gneiss: A) Huperzia, Oxyria, Cerastium e Saxifraga sulla fronte ripida; B) Luzula alpino-pilosa e Rhododendron ferrugineum sull´area anteriore; C) Brodoa intestiniformis, specie di lichene sull´area posteriore.

Le dimensioni dei licheni mappati su un rock glacier possono non solo indicare l´attività della superficie, ma anche l´età e la dinamica grazie alla lichenometria.
Fig.5. La lichenometria del rock Glacier di Murtél-Corvatsch (Engadina) ha mostrato diverse fasce di dimensioni dei licheni misurati (da 0,5 a 4cm)- con dimensioni maggiore verso la fronte che é meno attiva e più antica (secondo BURGA et al. 2004).

La mappatura delle specie di piante in combinazione con la licheometria ha mostrato che la distribuzione di specie di piante e la densità della vegetazione su un ghiacciaio di pietre attivo sono controllate dalla caduta di massi, il movimento del detrito e la velocità della rispettiva zona. All´attento geologo la vegetazione può dare cosi degli primi indizi per capire meglio la dinamica di questa particolare e ancora poco compresa forma geomorfologica.

Bibliografia:

BURGA, C. A.; FRAUENFELDER, R.; RUFFET, J.; HOELZLE, M. & KÄÄB, A. (2004): Vegetation on Alpine rock glacier surfaces: a contribution to abundance and dynamics on extreme plant habitats. Flora 199: 505-515
CANNONE, N. & GERDOL, R. (2003): Vegetation as an Ecological Indicator of Surface Instability in Rock Glaciers. Arctic, Antarctic, and Alpine Research, Vol. 35(3): 384-390
COSENTINO (ed.) (2006): Ghiaioni e rupi di montagna - Una vita da pionieri tra le rocce. Quaderni Habitat. Ministro dell´ambiente e della tutela del territorio/ museo friulano di storia naturale, Udine: 158

9 ottobre 2011

9 ottobre 1963: Vajont

"Sa, quella montagna,  
non vuole star ferma,
mi creda è una "lagna"!  
ne chieda conferma.
È velleitaria,  
rivoluzionaria,
ci pianta una grana, 
le dico, è una frana!...
"
"La ballata di Longarone", Beppe Chierici 1969

 Riassunto dell´articolo originale pubblicato su Scientific American
"October 9, 1963: Vajont"

La valle del Vajont (anche Vaiont) è caratterizzata nella sua parte superiore da un ampio bacino e una stretta gola alla sua foce - una situazione geomorfologica ideale per una diga e un bacino per uso idroelettrico.
La costruzione incomincia nel 1956 e completata nel 1960 - la più alta diga a doppio arco nel mondo con 261,61 metri e una capacità di 150 - 168 milioni di metri cubi.


Video.1. Il cortometraggio voluto dall´ingegner´ Carlo Semenza per documentare quello che a suo tempo era considerata una delle meraviglie tecniche del mondo.

Il riempimento del bacino inizia in febbraio 1960, in ottobre prime fessurazioni sul pendio del Monte Toc sono riportate. Il 4. Novembre una frana di 700.000 metri cubi cade nel lago che si sta formando. Osservando che la velocità del pendio accelera con l´innalzamento del livello del lago si assume che sia il livello della falda e incremento della pressione in essa a generare i movimenti. Si decide di limitare la velocità di riempimento per riuscir a controllare la deformazione della sponda. Questa strategia sembra aver avuto successo fino a metà del 1963, tra aprile e maggio s'innalza rapidamente il livello del lago fino a una profondità di 230m. I movimenti si accelerano da 0,3 a 0,8 centimetri per giorno. All´inizio di settembre a 245m di profondità si osserva un notevole acceleramento della presunta frana fino a raggiungere i 3,5 centimetri per giorno. A fine settembre si decide di ridurre il livello del lago per ridurre nuovamente i movimenti - che raggiungono i 20 centimetri al giorno.
Ottobre 9, 1963 alle 22:39 una parte del versante del Monte Toc cede. In 30 a 40 secondi stimati 240-270.000.000 di metri cubi di materiale crollano nel lago, riempendolo in parte per più di 400 metri. L´onda generate dall´impatto è alta fino a 240m, una ondata di 150m supera la cresta della diga e si dirige in direzione della valle del Piave.
L´inondazione risultante distrugge i paesi di Longarone, Pirago, Villanova, Fae e Rivalta, uccide più di 2.000 persone.

Fig.1. e 2. Foto aeree della valle del Vajont prima e dopo il 9 ottobre 1963 (modificato da SEMENZA 2001).

Molti fattori geologici hanno giocato un ruolo nella frana del Vajont.
Indagini geologiche presso il sito erano iniziate già alla fine del 1920. L´intera area è caratterizzata da una successione di calcari e marne del Giurassico/ Cretaceo ed Eocene, disposti in una grande sinclinale in cui asse si trova la valle.
Tra il 1956 e il 1960 ci si rese conto che le pendici del Monte Toc erano più instabili del previsto, poiché il fianco della montagna è composto di antichi depositi di frana, e non di roccia viva come inizialmente dedotto. Inoltre nella successione di Fonzaso (spessa appena 40m) sono stati rilevati strati di argilla, che possono fungere da piani di slittamento per grandi pacchi di roccia.
La situazione è stata ulteriormente destabilizzata dalla costruzione della diga e il lago, che ha modificato la falda dell´acquifero della montagna, e da forti precipitazioni nei 3 mesi prima della frana.

Fig.2. Riassunto degli eventi registrati al Vajont, modificato da MÜLLER 1964 e BELLONI & STEFANI 1992 - indagini geologiche e modelli proposti, precipitazioni, i livelli di acqua nel serbatoio e livelli della falda del Toc (misurata con piezometri) e la velocità dei movimenti. L´invaso finale del serbatoio è stato accompagnato anche da forti terremoti provenienti dalle pendici del Monte Toc.

Diversi fatti hanno alla fine contribuito a trasformare un evento naturale (una frana in montagna) in un disastro.
Frane di minor entità, come accaduto nel 1960, erano state sempre considerate possibili. Comunque i modelli più pessimistici - che prevedevano una frana con un piano di slittamento profondo - erano stati considerati improbabili e invece adottati modelli di diverse frane poco profonde e di minore entità. In parte questa negligenza è frutto di quei tempi,     ingegneri e geologi fin dall´inizio del 20° secolo si erano concentrati su deformazioni di terreni di bassa velocità, frane e caduta di massi erano fenomeni per decenni considerati di minore importanza.
Esistevano inoltre molti conflitti d'interessi, sia di natura politica ed economica - un risultato di essi era la situazione non chiarita della responsabilità delle persone e delle diversi enti coinvolte nel progetto.
Quando nelle ultime settimane l´entità della frana divenne chiara, era troppo tardi.






Bibliografia:

ABBOTT, P.L. (2009): Natural Disasters. 8th ed. McGraw Hill Publisher, New York: 541
BELLONI, L.G. & STEFANI, R.F. (1992): Natural and induced seismicity at the Vajont slide. In: Semenza, E., Melidoro, G. (Eds.), Proc. Meeting 1963 Vaiont Landslide, Ferrara 1986. Univ. of Ferrara, Ferrara: 115- 132
BORGATTI, L. & SOLDATI, M. (eds.): Geomorphology and slope instability in the Dolomites (Northern Italy): from glacial to recent geomorphological evidence and engineering geological applications. Field trip Guide book P22, 32nd International Geological Congress, Florence August 20-28, 2004: 53
HYNDMAN, D. & HYNDMAN, D. (2010): Natural Hazards and Disasters. 3th ed. Brooks/Cole Publisher, Belmont: 571
KILBURN, R.J.C. & PETLEY, D.N. (2003): Forecasting giant, catastrophic slope collapse: lessons from Vajont, Northern Italy. Geomorphology 54: 21-32
MÜLLER, L. (1964): The Rock Slide in the Vaiont Valley. Felsmechanik und Ingenieurgeologie – Rock Mechanics and Engineering Geology Vol. 2(3/4): 10-16
ROSSI, D. & SEMENZA, E. (1965): Carte geologiche del versante settentrionale del M. Toc e zone limitrofe, prima e dopo il fenomeno di scivolamento del 9 ottobre 1963, Scala 1:5000. Istituto di Geologia dell´Universitá di Ferrara.
SEMENZA E. (2001): La Storia del Vaiont – raccontata dal geologo che ha scoperto la frana. K-flash edizioni, Ferrara: 279
SUPERCHI, L.; FLORIS, M.; GHIROTTI, M.; GENEVOIS, R.; JABOYEDOFF, M. & STEAD, D. (2010): Technical Note: Implementation of a geodatabase of published and unpublished data on the catastrophic Vaiont landslide. Nat. Hazards Earth Syst. Sci., 10: 865-873

8 ottobre 2011

Il terremoto dell´Aquila: il processo e i media

Una raccolta di resoconti, articoli e opinioni sul processo dell´Aquila nei media nazionali/internazionali:

27.05.2011 - Der Spiegel - "Erdbebenforscher wegen Totschlags angeklagt"
14.06.2011 - The New York Times - "Indictments Over 2009 Quake Cause Quite a Furor"
14.09.2011 - Nature - "Scientists on trial: At fault?"
20.09.2011 - About.com Geology - "L'Aquila Seismologists Trial Begins"
22.09.2011 - The New York Times - "Italy’s Troubling Earthquake Prosecutions"
03.10.2011 - The New York Times - "Trial Over Earthquake in Italy Puts Focus on Probability and Panic"
22.11.2011 - The legal aftershocks of the earthquake in L’Aquila, Ital30.22
30.11,2011 - AquilaTV - "Processo Commissione Grandi Rischi. La testimonianza di Cora e Vittorini"

La maggior parte concorda che il problema non è la mancata previsione di un terremoto (cosa finora impossibile, poiché una vera previsione deve fornire luogo esatto dell'epicentro, orario e intensità), ma una mancata comunicazione del rischio.
 

È possibile stimare la probabilità di un specifico evento ?

Possono essere considerati fattori di lunga data come gli intervalli di episodi storici o calcolando l´energia accumulata nelle rocce (fattore che comunque è influenzato da cosi molte variabili che il margine d´errore è considerevole).
Possono essere considerati fattori di corta data come la distribuzione e intensità di sismi (che possono mostrare se una faglia è stata riattivata o l´ammasso roccioso sta cedendo) e misurazioni geochimiche.

Questi fattori possono aiutare a calcolare una probabilità del rischio sismico - la probabilità che in un determinato periodo possono avvenire sismi di un certo intervallo d'intensità. Il specifico evento sismico è totalmente determinata dal processo di rottura finale è per questo non definibile e prevedibile a priori.

Fig.1. Mappa di pericolositá sismica, resa disponibile dall´INGV.

Bibliografia:

BARANI, S. & EVA, C. (2011): Did the 6 April 2009 L'Aquila Earthquake Fill a Seismic Gap? Seismological Research Letters, September/October.82(5): 645-653

MARZOCCHI, W. & LOMBARDI, A.M. (2011): La previsione probabilistica. DARWIN No. 42 Marzo/Aprile: 84-87


4 ottobre 2011

Botanica per il geologo: lichenometria

Forse uno dei primi naturalisti ad adottare un approccio botanico per un problema di datazione geologica fu Lord William Hamilton (1730-1803), ambasciatore inglese a Napoli. Hamilton aveva notato importanti differenze nell´aspetto di varie colate laviche del Vesuvio - le colate recenti (alla cui formazione Hamilton aveva assistito di persona) erano composte di frammenti e blocchi di roccia nera senza alcun segno di vita. Colate storiche erano coperte da macchie di licheni e rari cuscini di erba e arbusti, infine esistevano colate ricoperte da una vegetazione densa e fitta. Hamilton dedusse che queste ultime dovevano essere depositi vulcanici di antica formazione, forse anteriore alla storia umana stessa.

Un simile approccio è ancora usato oggigiorno con particolari organismi che riescono a sopravvivere e crescere anche negli ambienti più difficili e  desolati - i licheni. L'idea di utilizzare la crescita dei licheni per una datazione relativa di una superficie fu proposta nel 1930 dal botanico Knut Faegri. Nel 1950 il botanico austriaco Roland Besch può presentare i primi risultati pratici: osservando dei licheni su delle lapide in un cimitero formula una correlazione tra la grandezza di un individuo e l´età della superficie (data dal giorno della morte del proprietario), poi misura le dimensioni delle stesse specie di licheni su massi depositati in fronte a un ghiacciaio. Beschel cosi facendo riesce a datare per la prima volta diverse estensioni dei ghiacciai alpini in tempi storici e preistorici. Nonostante questi primi promettenti risultati della lichenometria i geologi adopreranno questa tecnica negli ambienti artici o alpini appena un decennio dopo.

Nelle nostri latitudini la lichenometria si è rivelata utile per datare vari processi geomorfologici  - come depositi glaciali, colate di detrito, depositi e nicchie di frana e caduta di massi - in ambienti estremi di alta montagna fino ad una altezza di 7.000 metri.
Il segreto dei licheni per colonizzare questi ambienti e la loro struttura, risultato della simbiosi tra due gruppi di organismi molto diversi tra di loro. Diversi gruppi di alghe microscopiche, che grazie alla fotosintesi producono sostanze nutritive, vengono inglobate da un fungo che fornisce protezione e umidità al suo partner in cambio di una parte dei nutrimenti. E il fungo a determinare la morfologia esterna del lichene, forma che rimane constante, anche se il fungo può adottare come partner vari gruppi di alghe. Per questo è possibile trattare questa comunità simbiotica come singola specie - e oggigiorno si contano più di 17.000 specie di licheni.
Esistono tre morfologie di talli distinte nei licheni - talli fogliosi, talli fruticosi e talli crostosi. 

Fig.1. Brodoa intestiniformis é una specie di lichene con tallo crostoso che colonizza una superficie su una roccia composta praticamente solo da quarzo - minerale resistente all´erosione e di dubbio valore nutrizionale - ma sufficiente per questa comunità simbiotica.

L´ultimo gruppo è il più comune e numeroso e quello più utilizzato nella lichenometria. Licheni crostosi possono colonizzare in pratica ogni superficie dura, anche se diverse specie mostrano preferenze specifiche, per esempio tra diversi tipi di roccia.
La colonizzazione di una superficie e la crescita di un lichene procedono in quattro passi:

1)    Una superficie viene esposta, a seconda delle condizioni ambientali i primi individui di licheni la colonizzano in un arco di tempo compreso tra i 5 ai 100 anni.
2)    I talli mostrano un incremento nel tasso di crescita pressoché esponenziale.
3)    Il tasso di crescitá diminuisce, inizia una fase di lenta ma constante crescita.
4)    Il tasso di crescitá diminuisce notevolmente fino alla morte dell´organismo.

Il tasso di crescita è un valore specifico che dipende dalla specie studiata e le condizioni ambientali, inoltre non tutte le specie di licheni sviluppano una fase di crescita costante; queste specie non possono essere utilizzati nella lichenometria. I fattori che influenzano maggiormente la crescita sono temperatura, umidità, disponibilità di sostanze nutrienti, lunghezza delle giornate e copertura nevosa.
L´efficienza delle alghe simbiotiche è relativamente bassa: meno del 25% se si comparano stesse aree esposte alla luce solare  tra licheni e piante vascolari. Ne risulta una crescita molto lenta (anche nella fase più attiva), in compenso licheni possono raggiungere un età biblica. Individui di alcune specie di licheni (come Rhizocarpon geographicum) sono stati stimati vecchi tra i 5.000 ai 9.000 anni, in teoria il limite superiore del metodo lichenometrico. Tuttavia per motivi pratici, per esempio diversi individui tendono a crescere insieme rendendo difficile misurazioni esatte, la lichenometria viene applicata solo in un intervallo di tempo che comprende gli ultimi 500 anni.

Bibliografia:

McCARTHY, D.P. (2006): Lichenometry. 1399 - 1404 In (ed): ELIAS, S.A. (2006): Encyclopedia of quaternary science. Elsevier.
WALKER, M. (2005): Quaternary dating methods. Wiley Press: 304